Il dramma del Conte Rosso

Il dramma del Conte Rosso
24 maggio 1941
L'affondamento della nave passeggeri Conte Rosso, adibita al trasporto truppe verso l'Africa Settentrionale, provocò il più alto numero di vittime umane in un singolo bastimento di tutta la
Seconda Guerra Mondiale all'interno della Marina Italiana.
La nave faceva parte di un convoglio formato dai seguenti bastimenti :

Piroscafo passeggeri Conte Rosso

Piroscafo passeggeri Esperia

Motonave passeggeri Victoria

Piroscafo misto Marco Polo.
Il Conte Rosso era una nave di 17.879 tonnellate di stazza lorda e di circa 22.000 tonnellate di dislocamento, la più grande nave del convoglio, e per questo fu lei a imbarcare circa 2.729 degli 8.500 uomini destinati alla Libia.
La scorta diretta era assicurata dal cacciatorpediniere Freccia, e dalle torpediniere Procione, Orsa e Pegaso.
Il convoglio lasciò Napoli alle 04.40 del 24 maggio, e grazie alla elevata velocità di 17 nodi (si trattava di un convoglio veloce), alle 15.15 le unità iniziarono l'attraversamento dello Stretto di Messina, mentre da Messina venivano fatte uscire le torpediniere Calliope, Perseo e Calatafimi per incrementare la vigilanza antisom.
Alle 16.00 inoltre uscì, sempre da Messina, la scorta indiretta del convoglio, formata dagli incrociatori pesanti Bolzano e Trieste e dai caccia Ascari, Corazziere e Lanciere, mentre il cielo del convoglio era percorso da aerei da caccia e idrovolanti.
Alle 20.33 il sommergibile Upholder, della Royal Navy, lanciò i suoi siluri contro il convoglio a 37 gradi nord e 15 gradi circa est
del capo Murro di Porco. Subito il Freccia fu sull'unità nemica e, con il Corazziere e il Lanciere, diede inizio alla caccia che poté durare solo 19 minuti, durante i quali furono lanciate 37 cariche di profondità che danneggiarono seriamente il sommergibile.
8 minuti dopo essere stato colpito da due dei siluri lanciati dall'Upholder il Conte Rosso, erano le 20.41, si inabissò. Ora iniziava il recupero dei naufraghi, espletato dal Corazziere, dal Lanciere, dal Pegaso e dal Procione, mentre le altre navi proseguivano con il convoglio, che giunse indenne a Tripoli il mattino seguente.
Fortuna volle che il bastimento affondasse a breve distanza dalla costa, cosa che rese più veloci i soccorsi.
Sui 2.729 uomini presenti a bordo se ne salvarono solamente 1.432.
Il comandante dell'Upholder fu decorato, per questo siluramento, con la Victoria Cross. Sparirà in mare il 14 aprile 1942, affondato dalla torpediniera Pegaso mentre cercava di attaccare un altro convoglio italiano nella zona di Tripoli.
Gli uomini del Conte Rosso furono in seguito mandati a combattere in tutti fronti, dall'Africa alla Russia dove patirono altre drammatiche prove.

L'affondamento del Conte Rosso (testimonianza di un superstite)
“Io sottoscritto Padello Angelo, nato il 29 maggio 1918, ho fatto il militare a S. Maria di Capo Vetere nella caserma Mario Fiore specializzata in stazione radio alfabeto Morse. Cerco di raccontare le mie avventure capitatomi purtroppo sulla mia pelle. Avuto il diploma di marconista a grado di caporale maggiore, si doveva andare al fronte e cioè in Africa Orientale. Mi imbarcai assieme ai miei compagni sulla bellissima nave Conte Rosso che svolgeva servizio per trasporto truppe. Purtroppo la sera del 24 maggio 1941 alle ore 20,41 circa, due siluri di un sommergibile inglese la colpirono e la mandarono a fondo in brevissimo tempo. Annegarono 1297 ragazzi in pochi minuti e non parliamo purtroppo delle camicie nere di avanzata età che erano alloggiate nelle stive. Durante il pomeriggio, il capitano della nave ci spiegava al microfono come comportarsi in caso di attacco da sommergibile, di stare calmi che tutto si sarebbe risolto al meglio, ma purtroppo non è stato così. La nave quando è stata colpita, si vedeva a colpo d’occhio che si sarebbe inabissata in poco tempo. Quindi si può immaginare la mia paura dal momento che non sapevo nuotare. Si vedevano gruppi di ragazzi inginocchiati a pregare e il cappellano che li benediva. Ad un tratto si sentì la voce del capitano che gridò “Si salvi chi può!”. Io non volevo morire dato che mio fratello era già morto durante la Grande Guerra del 15 – 18. Quando fecero scendere in mare l’ultima scialuppa carica di ragazzi, senza pensarci due volte, tra pugni, calci e spintoni riuscii ad avvicinarmi alla ringhiera e saltandola mi ci buttai sopra e come me fecero tanti altri ragazzi. Ad un tratto la calata si bloccò e la barca non andava nè più giù e nè più su. Mi guardai attorno e vidi una corda penzolare dalla nave e calarsi in mare; mi gettai nel vuoto per aggrapparmi e prima di fermarmi, scivolai per alcuni metri scorticandomi le mani, tanto era ruvida quella corda. Riuscii comunque a calarmi e a gettarmi nell’acqua, ma non essendomi legato al salvagente, cominciai a bere e a gridare a squarcia gola “Aiuto!”. Ad un certo punto, vidi un ufficiale staccarsi da uno zatterone e venirmi vicino dicendomi “Calma ragazzo..ti tengo io..”. Con me attaccato come un peso morto, il mio salvatore non poteva più tornare alla zattera poiché si era trasformata in un formicaio di persone che si spintonavano per salvarsi la pelle. Cercò di portarmi al largo il più possibile. Intanto l’acqua non era più acqua, ma bensì un mare di nafta perché i serbatoi della nave furono colpiti e distrutti dai siluri. In quel momento ci terrorizzava il fatto che tutto il mare intorno a noi potesse incendiarsi e finire così tutti quanti arrostiti. In quelle condizioni siamo rimasti fino alle 5 del mattino seguente, quando ci raccolsero altre navi di soccorso che ci hanno portato al porto più vicino, cioè ad Augusta in Sicilia. Ci hanno fatto levare tutto quello che avevamo addosso e messi sotto le docce con dei getti di acqua per levarci tutta la nafta e l’olio che avevamo addosso, poi, non avendo altro da vestirci, ci hanno consegnato delle divise bianche da marinaio. Ad un tratto nella baraonda che c’è stata, mi trovai a tu per tu con un mio compagno di Asti, salvatosi anche lui miracolosamente. Ci abbracciammo emozionatissimi. Ci domandammo se sapevamo di altri compagni sopravissuti. Io gli risposi di no, però gli dissi di avere visto per l’ultima volta un nostro amicone di Asti ancora sopra la nave e che non voleva gettarsi giù perché aveva paura e non sapeva nuotare. Si poteva immaginare la fine che poteva aver fatto quell’uomo. Insieme decidemmo di andare a vedere in un capannone lunghissimo dove avevano portato tutti quelli che avevano potuto recuperare, tra vivi, morti e feriti. Mentre ci incamminavamo all’interno del capannone nella speranza di trovare qualche amico sopravissuto, ad un tratto mi sentii chiamare con il mio nome “Angelo! Angelo!”. Mi voltai e mi avvicinai a lui per guardarlo meglio. Aveva la testa gonfia come un pallone e mi disse: “Sono Dario di Asti! Non mi riconosci!?” (era irriconoscibile!). Chiamai l’altro amico e gli tenemmo tanta compagnia. Dopo qualche giorno di permanenza, noi e gli altri pochi, pochissimi superstiti fummo portati di nuovo alle nostre sedi, cioè a S. Maria di Capo Vetere con il treno. Quando arrivammo, trovammo con immensa sorpresa un’ accoglienza emozionante. Battimani e musica ci ha accompagnato fino alla nostra caserma da dove eravamo partiti e qui conclusi la mia avventura con sei giorni di licenza premio.
El Alamein e la prigionia
Purtroppo il mio destino fu quello di dover ripartire sempre per l’Africa Orientale con la nave e solo l’idea di imbarcarmi nuovamente su una nave mi faceva impazzire! Feci numerose domande ai miei superiori per evitare un ulteriore viaggio in mare ed infine accettarono la mia richiesta trasferendomi con nuovi compagni a Lecce presso un campo di aviazione dove avrei preso poi un aereo, destinazione Africa. Ci fecero salire nove ragazzi per volta su diversi aerei con rotta Lecce – Bengasi. Partimmo subito con tanta emozione. Si viaggiava altissimi. L’aereo era armato con una sola mitragliatrice e ad un certo punto il mitragliere si mise a smontare l’arma per pulirla e oliarla. Nello stesso momento, il pilota fece un fischio al mitragliere per segnalare la presenza sotto di noi di un convoglio di navi accompagnate da 5 aerei che volavano sopra di esse. Il nostro pilota, non potendo identificare la nazionalità di quelle navi e di quegli aerei, fece una picchiata verso il mare in modo da potersi difendere da un possibile attacco e così noi che eravamo tutti in piedi fummo scaraventati nella cabina di pilotaggio, ammucchiati uno sopra l’altro. Fortunatamente, le navi in lontananza ci segnalarono la loro identificazione come convoglio italiano e così potemmo continuare il nostro volo fino a Bengasi. Arrivati vicino al campo di atterraggio non si poteva scendere perché altri aerei, questa volta nemici, stavano bombardando l’aereoporto. Superato anche questo ostacolo, tappa dopo tappa arrivammo fino ad El Alamein in Egitto, a 60 chilometri da Alessandria. Lì si aspettava soltanto che dall’Italia giungessero i rifornimenti di ogni genere per poter proseguire. Quando arrivarono i rifornimenti, la nostra gioia si trasformò subito in tragedia quando scoprimmo con sorpresa che nell’aprire le casse che avrebbero dovuto contenere ciò che aspettavamo, in realtà trovammo solo segatura. Lo sconforto ci attanagliava sempre di più, mentre ci domandavamo il perché fummo abbandonati di nuovo ad un tragico destino. Scoprimmo poi il perché di questo trattamento quando sapemmo che l’Italia si era trasformata in una baraonda, in un caos totale, un paese non più in grado di sostenere una guerra per mancanza di armi di ogni genere!! Anche qui mi trovai nell’amara consapevolezza di trovarmi di fronte alla morte di migliaia di giovani soldati italiani che venivano sepolti sotto la sabbia e inghiottiti dal deserto che nascondeva dopo alcuni giorni ogni qual volta seguiva una tempesta, il luogo stesso della sepoltura…quante anime perdute e mai più ritrovate in quell’inferno. La ritirata fu per noi penosissima, senza viveri, senza acqua, senza mezzi di locomozione per migliaia di chilometri travolti da un destino infame, con la morte sempre in agguato…stanchi…derelitti e senza dignità, ma accompagnati comunque da una grande forza di volontà. Giungemmo in Tunisia e li sapemmo che da qualche parte erano sbarcati gli americani e dall’altra gli inglesi. Fummo poi catturati con l’onore delle armi e trattati come esseri umani. E qui finisce in parte la mia avventura in Africa e per molti poveri diavoli finiti prigionieri e portati nelle prigioni di Londra e chissà quali altri posti. Questa maledetta guerra ha lasciato un segno indelebile nella mia memoria dove non riuscirò mai a cancellare le atrocità e le tragedie di cui sono stato testimone e che hanno segnato il resto della mia vita. A questo punto dovrei essere contento di essere uno dei sopravissuti, ma la mia memoria mi porta a ricordare la fine di tutti gli amici, compagni e giovani anime che non hanno fatto più ritorno a casa. Mi chiedo…perché? E per chi è servito tutto questo? Tutto il resto è storia…grazie per avermi dedicato la vostra attenzione… ma non me la sento più di continuare….avrei, per concludere, a ottantotto anni, ancora un solo desiderio se è possibile….trovare qualche altro superstite del Conte Rosso ancora in vita per poterlo abbracciare..ancora una volta…chissà!
Angelo Padello tratto da: http://www.trentoincina.it/mostrapost.php?id=208

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